Oggi parliamo di problemi ambientali dell’acquacoltura.
Puoi leggere l’articolo, o guardare il video:
Ciao a tutti ragazzi, io sono Alessandro Nicoletti, biologo marino e fondatore dell’associazione ecologista Keep the Planet.
Nel precedente video/articolo qui sul canale avevamo parlato dell’acquacoltura, di cos’è era e perché è importante per il futuro della nostra specie.
L’acquacoltura infatti è il settore dell’industria ittica in più rapida crescita e rappresenterà ben il 62% della produzione mondiale di pesce entro il 2030.
Pesce e prodotti ittici in generale che sono sempre più richiesti da una popolazione umana esigente e in cerca di cibo genuino e salutare.
Gli scienziati sono assolutamente concordi che l’acquacoltura giocherà un ruolo fondamentale nella sicurezza alimentare del futuro perché oltre il 90% degli stock ittici a livello globale sono sfruttati al loro massimo biologico e non possiamo pescare di più senza provocare un collasso ecologico dalle conseguenze inimmaginabili.
Che ci piaccia o no, l’acquacoltura è la sola via percorribile per soddisfare la domanda di prodotti ittici a livello globale.
Specie allevate
Attualmente sono oltre 500 le specie allevate per motivi commerciali e non tutte hanno lo stesso impatto sull’ambiente.
Essenzialmente sono 4 le categorie di organismi che vengono allevati:
- Pesci;
- Crostacei;
- Molluschi;
- Alghe
Di queste, i pesci e i crostacei sono quelle che hanno il maggior impatto ambientale, mentre alghe e molluschi apportano addirittura dei benefici all’ambiente.
Problemi ambientali dell’acquacoltura
Quando parliamo di acquacoltura dobbiamo inoltre fare un’altra distinzione e cioè l’allevamento di quelle specie in cui l’uomo ha il pieno controllo del ciclo biologico e quelle per cui l’allevamento è strettamente correlato dalle catture di esemplari selvatici.
Nel primo caso, gli esempi ci arrivano dai salmoni, dalle orate e dai branzini, tre specie che vengono allevate dall’uovo fino all’esemplare adulto, mentre il secondo è il caso dei tonni che in realtà non vengono allevati, ma solamente catturati allo stato selvatico e fatti accrescere in apposite reti per poi essere venduti.
Se per allevare salmoni orate e branzini non è necessario attingere dallo stock selvatico, l’allevamento dei tonni è insostenibile da tutti i punti di vista perché non fa altro che pescare individui selvatici in mare per poi ingrassarli utilizzando spesso delle farine fatte a loro volta da altri pesci pescati sempre in natura.
In ogni caso, è proprio l’utilizzo dei mangimi per alimentare i pesci di allevamento a far discutere gli scienziati e gli ambientalisti.
Il motivo è semplice, molti dei pesci allevati sono infatti carnivori che in natura ovviamente mangerebbero altri pesci più piccoli.
Prede che non possono essere allevate come acciughe, sgombri e sardine e che vengono quindi pescate in grandi quantità e trasformate in mangimi per alimentare appunto i pesci di allevamento come i salmoni rendendo quindi tutto il sistema non sostenibile.
Per risolvere il problema i ricercatori hanno provato a sostituire le farine di pesce con ingredienti vegetali come la soia, ma con scarso successo perché comunque sia i salmoni rimangono pesci carnivori.
Finalmente dopo decenni di studio, sono stati compiuti grandi passi in avanti verso la sostenibilità come ad esempio l’utilizzo di farine di insetti che sono anche loro un ingrediente naturale nella dieta dei pesci selvatici.
Un altro impatto degli allevamenti di pesci è causato dal rilascio di sostanze chimiche in ambiente.
Negli impianti infatti vengono spesso usate delle sostanze come antibiotici e antiparassitari per la salute dei pesci, sostanze che vengono ovviamente disperse in mare impattando negativamente la fauna selvatica.
Esistono varie strategie per ridurre l’utilizzo di farmaci come il minor numero di esemplari nelle reti e sopratutto nella realizzazione degli impianti in mare aperto dove le sostanze chimiche rilasciate si disperdono facilmente nelle grandi profondità marine.
Quello degli allevamenti in mare aperto è infatti l’ultima frontiera della sostenibilità in quando le condizioni ambientali riducono l’impatto sugli ecosistemi.
Questa soluzione è utile anche per l’altro problema legato all’acquacoltura e cioè le feci concentrate dei pesci che nelle zone costiere alterano i fondali danneggiando molte specie selvatiche.
In mare aperto questo non avviene per via delle correnti marine che le disperdono in mare.
Quarto problema in acquacoltura è la fuga dei pesci di allevamento che se riescono a superare le reti e conquistare la libertà, potrebbero fungere da veicolo di infezioni e malattie per gli stock selvatici e impoverimento genico.
Molte delle specie allevate sono nettamente diverse dai loro cugini selvatici.
Se i fuggitivi si riproducono con le loro controparti selvagge, la composizione genetica della loro progenie potrebbe essere meno adatta a sopravvivere e prosperare in natura.
Inoltre, i pesci vengono talvolta allevati in aree in cui non sono nativi.
Se fuggono, possono affermarsi come specie invasive e interrompere l’armonia dell’ecosistema.
L’impatto ambientale dell’acquacoltura varia ampiamente, a seconda delle specie da allevare, dei metodi utilizzati e del luogo in cui si trova l’azienda.
Quando vengono utilizzate buone pratiche e nuove tecnologie, è possibile coltivare i frutti di mare in modo tale da avere un impatto minimo sull’ambiente.
Tali operazioni limitano i danni agli habitat, le malattie, le fughe di pesci d’allevamento e l’uso di pesci selvatici come mangime e sono quindi la scelta da prediligere se siamo in cerca di proteine animali.
Nel prossimo video/articolo vedremo quali strategie si devono scegliere per trasformare l’acquacoltura in un metodo sostenibile così da garantire la sicurezza alimentare a milioni, anzi no, miliardi di esseri umani.
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